Racconto a tema da:
http://settegiornidifollie.altervista.org/7-giorni-follie-1213/7-giorni-di-follie-2013/la-fermata/la-metro-di-anna-ciraci/
Il cielo era coperto da nubi grigie dall’aria minacciosa,
aggrovigliate fra loro come se si stessero organizzando a un attacco
globale, pronte a inghiottire il mondo che al di sotto le stava
guardando.
D’improvviso mi avvolse un vento gelido pungente proprio intorno alle
cosce coperte soltanto da quel nero setoso di calze velate, mi strinsi
più dentro il cappotto sperando di riuscire ad avere un po’ più di
conforto ma il freddo premeva sopra le gambe quasi come volesse
intromettersi sfacciato.
I piedi infilati in quelle tenaglie dal tacco a spillo avevano già
smesso di farsi sentire da almeno mezz’ora ormai erano come dei blocchi
pesanti come cemento da trascinarsi dietro: “Avrei fatto meglio a
metterle nello zaino ste scarpe come hanno fatto Rachele ed Elsa!”
Pensai tra me e me mentre guardavo più avanti Rachele che si stava
ruffianando con Marco. Stavo rimanendo indietro e sembrava che a nessuno
importasse. Elsa era tutta intenta a chiacchierare con Patric, il
francese a “cottimo”. Lo chiamavamo così perché aveva partecipato allo
scambio alla pari con Elsa per venire in Italia e invece di imparare il
nostro modo di vivere passava il suo tempo a far tutte le commissioni
che i suoi genitori gli davano da svolgere, l’unico suo momento di
respiro era quando doveva studiare, poverino, oggi era un’eccezione
quella di poter finalmente passare la giornata nel reale mondo degli
adolescenti, insieme a noi.
Più avanti ancora c’era Claudio con Sandro che facevano i soliti idioti facendosi i dispetti.
Claudio era l’assurdo motivo che mi aveva convinto a indossare queste
scarpe prima del tempo e neppure se n’era accorto “Idiota!” lo strinsi
fra i denti neanche sapendo a chi davvero lo stessi dicendo…
Era il 31 dicembre del 1990.
Avevamo attraversato tutta la città cambiando almeno quattro autobus, la
destinazione finale doveva essere l’estrema periferia di Bologna, dove
avremmo partecipato all’evento più maestoso di tutta Italia per chiudere
alla grande l’anno, o almeno questo era ciò che aveva detto chi, sotto
banco, a scuola, ci aveva rifilato i coupon. Il controllore, accortosi
che non avevamo i biglietti del pulmino, ci aveva buttato fuori e ora
non sapevamo neppure in che punto della città eravamo. Dispersi in
aperta campagna dove tirava un’aria che sembrava volerci entrare fin
nelle ossa e spappolarcele come punizione divina della scappatella non
dichiarata.
E poi la pioggia…
Un diluvio vero e proprio come se di colpo un muro ci fosse precipitato
addosso. Fredda gelata mi camminava la schiena e scendeva lungo le gambe
facendomi percorrere da brividi inconsulti.
Fu allora che Claudio finalmente mi degnò di uno sguardo, mi raggiunse
indietro e passò il suo braccio intorno alle mie spalle avvolgendomi con
lui dentro il suo cappotto e tenendomi stretta. Quello si che fu di
conforto!
Da sotto guardavo le mie scarpe nuove diventar calosce: “ Mia madre mi
uccide” pensai mordendomi il labbro ma scansai subito quell’atroce
pensiero rimandandolo al tempo dovuto, ora volevo solo assaporarmi il
momento vicino a Claudio…
E intanto scrosciava a un tale punto che non si riusciva neppure a veder al di là di un passo.
Ci compattammo tutti preoccupati c’eravamo persi e nessuno sapeva dove
eravamo: ognuno di noi aveva raccontato una versione diversa per il
cenone di fine anno tutto per avere il consenso dai genitori per poter
finalmente salutare insieme, per la prima volta, l’anno nuovo.
Due lumini infondo alla via sembravano chiamare la nostra attenzione.
Oscillavano, offuscati dalla pioggia scrosciante, ad altezza d’uomo e
parevano davvero mandare un segnale come fossero un faro tra la nebbia a
indicare lo scoglio alle navi di passaggio e non potemmo che avanzare
con passo veloce per poterlo raggiungere.
Era una struttura di colore rosso arrugginito, queste lanterne
assicurate a due ganci oscillavano in balia del vento, illuminando un
cartello di fortuna con la scritta Metro.
“Metro?” Lo dicemmo tutti insieme all’unisono e scoppiammo a ridere, forse più rincuorati che altro.
Seguimmo l’indicazione e ci trovammo difronte a una scala evanescente
che scendeva in un corridoio grezzo privo di qualsiasi abbellimento,
sembrava più una discesa dentro uno scavo, ma la pioggia non voleva
cessare e il freddo ormai aveva già iniziato dentro le vene, il processo
di assideramento così non ci pensammo e affrontammo la discesa.
Claudio mi stava ancora attaccato per paura che scivolassi e gli altri ci seguirono a ruota.
Di sotto appariva tutto come una normale fermata della metro a parte
forse il fatto che non c’erano né treni né persone in attesa, nessuna
biglietteria e neppure indicazioni per i binari, se non altro era calda,
asciutto e illuminato.
“Male che vada, ragazzi, io ho la bottiglia, almeno brinderemo!” Disse
Marco mostrando il bottiglione di Berlucchi che portava dentro lo zaino
accompagnandosi con la sua solita risata blasfema che da sempre ci
faceva scoppiare a ridere come dei bimbi che avevano appena fatto una
marachella.
Poggiati gli zaini in un angolo, perlustrammo la zona. Tutto era lindo e
pulito come se mai nessuno prima di allora ci avesse messo piede,
nessuna scritta sui muri, nessuna panchina con assi mancanti, sembrava
d’esser i primi ad aver messo piede in quella stazione, anche se nessuno
pareva voler dar peso alla cosa.
Sandro, che era il burlone della compagnia, d’un tratto, si mise a
correre verso Rachele e toccandola col dito disse ridendo: “Tua!” e poi
scappò via, come faceva da bambino quando vedeva la figlia della sua
vicina di casa che, a dir di tutti, portava iella. Rachele a sua volta,
prestandosi al gioco, consegnò il suo fardello a Patric che, anche se
non conosceva la vicina in questione allungò la mano verso Marco
scaricando il suo possedimento, ovviamente Marco puntò il suo dito su di
me ma non abbastanza in fretta da impedirmi di dire “Alimus! Fammi
togliere le mie calosce almeno se no non vi prendo più”.
Ci fu un fuggi fuggi generale, chi toccava uno e poi toccava un altro
era da un sacco di tempo che non ci divertivamo così, sempre tutti presi
a dimostrar al mondo d’esser grandi senza poi esserlo mai abbastanza
per far nulla. Giocammo, giocammo per ore senza neppure renderci conto
che il tempo passava e stavamo bene, come non lo stavamo da chissà
quanto!
Il primo ad arrendersi fu Marco sfiancato dalla corsa fuori programma,
si sedette sulla panchina, lo seguì Rachele che gli si sedette vicino
tornando di nuovo grande.
Claudio invece mi chiese di andare a fare una passeggiata.
Camminammo per non so quanto tempo in silenzio fino a trovare una
panchina isolata ed ombrata. Mi baciò subito come se non avesse
aspettato altro per tutta la sua vita, mi accarezzò il seno ed io lo
lasciai fare, come se non ci fosse più altro da fare. Mi accarezzò le
cosce che oramai erano fasciate solo di quel che restava del nero setoso
ed io lo lasciai fare, lasciai salire la sua mano fin dove ancora
nessuno era salito, e feci in modo che ci arrivasse ancora, perché
aspettare non era più il tempo. Lo accarezzai anch’io sopra i jeans e
sentii pulsare il suo volere e lui sentii il mio volere. Che senso aveva
allora aspettare ancora? Mi prese, con dolcezza posandomi sopra di lui e
finalmente ci unimmo. Così sfacciatamente, senza alcun timore, o remora
o pudore, sopra un’apparente panchina pubblica alla fermata di una
metro particolare. Facemmo l’amore per la prima volta entrambi e fu
assolutamente e meravigliosamente naturale.
Quando ci unimmo agli altri, decidemmo di festeggiare la fine di
quell’anno, anche se ancora non era ora. Stappammo il bottiglione e ci
scambiammo tutti gli auguri, Claudio mi dette un bacio indimenticabile
stringendomi la mano si avvicinò dicendomi che mi amava gli risposi:
“Anch’io, Claudio, da sempre!” e poi brindammo a noi.
Fu una serata come se ne vivono poche nella vita…
La metro alla fine arrivò.
Ci mettemmo in fila per salire, un omino pelato e nero come la pece
occupava quasi tutta la porta, ma nessuno di noi aveva voglia di parlare
con lui per chiedergli di spostarsi. Per Primo salì Claudio, poi
Sandro.
Poi fu il turno di Patric e salì anche Elsa, poi subito dietro anche
Marco e Rachele, ma quando fu il mio turno, l’omino scuro si girò di
scatto sussurrando a bassa voce: “No! Tu NO!”
Vidi solo sfrecciare la metro poi non vidi più niente, almeno fino a quando non mi svegliai…
Erano passati tre mesi dalla fuga segreta del nostro piccolo, grande gruppo.
In ospedale ritrovai mia madre con le lacrime agli occhi quando aprii
i miei. Mio padre mi guardava senza proferir parola, e mio fratello
quasi mi ruppe il polso (di nuovo) per saltarmi al collo ed
abbracciarmi.
Solo molto tempo dopo mi raccontarono com’erano andate davvero le cose quel 31 dicembre del 1990.
Ci fu un acquazzone da paura quella sera uno di quelli capaci di allagar
le cantine e render impercorribili le strade, tanto da non permettere
ad un camion dal color rosso ruggine di fermarsi in tempo prima di
travolgere sei ragazzi sul ciglio di una stradina di campagna priva del
marciapiede.
Io ero rimasta indietro…