giovedì 27 febbraio 2014

Bagaglio



Trascini stanco
pelle ossuta
il resto segue
solcando strade.
Consuma il tempo
e lascia il segno
come inchiostro
sul bianco spento…
Scrivi allor
del tuo bagaglio
rilega i fogli
del tuo guardato
affinché dal profondo
chi può lo legga
e trovi l’essenza
del tuo esser stato.
Nascosto fra righe
di suadenti parole
si riflette comunque
l’aspro rancore.
Lascia che segua
senza farlo cadere
fin quando arrivi il momento
di farlo vedere…
Tramutalo in ali
che voli lontano
Poi riprendi il bagaglio
e ricomincia a viaggiare…

lunedì 24 febbraio 2014

L’inutile attender che succeda…


E’ come esser in attesa d’un treno
che sai già non passerà mai…
inutile aspettar che spiovi
sotto la tettoia d’una fermata
che pare esser un fantasma:
dispersa
nell’ombra di una notte
che di vitale sembra aver
soltanto pioggia densa
non puoi veder
che il solo tuo respiro…

sabato 22 febbraio 2014

Rami afflitti





Allungo le braccia in cerca
d’un azzurro avvolgente
e trovo solo il grigio
d’un ruvido ventre.
Sia dolce la brezza
che carezzandomi i rami
mi desti l’anima
avvelenata e stanca.
Sia saggio il sole
che con i suo raggi intensi
mi illumini orizzonti persi…
Sospiri il vento
che tra le mie dita intrecciate
aliti ansimanti di linfa
ricercan la vita
da donare al mio mondo.

venerdì 21 febbraio 2014

La Metro


Racconto a tema da:
http://settegiornidifollie.altervista.org/7-giorni-follie-1213/7-giorni-di-follie-2013/la-fermata/la-metro-di-anna-ciraci/
Il cielo era coperto da nubi grigie dall’aria minacciosa, aggrovigliate fra loro come se si stessero organizzando a un attacco globale, pronte a inghiottire il mondo che al di sotto le stava guardando.
D’improvviso mi avvolse un vento gelido pungente proprio intorno alle cosce coperte soltanto da quel nero setoso di calze velate, mi strinsi più dentro il cappotto sperando di riuscire ad avere un po’ più di conforto ma il freddo premeva sopra le gambe quasi come volesse intromettersi sfacciato.
I piedi infilati in quelle tenaglie dal tacco a spillo avevano già smesso di farsi sentire da almeno mezz’ora ormai erano come dei blocchi pesanti come cemento da trascinarsi dietro: “Avrei fatto meglio a metterle nello zaino ste scarpe come hanno fatto Rachele ed Elsa!” Pensai tra me e me mentre guardavo più avanti Rachele che si stava ruffianando con Marco. Stavo rimanendo indietro e sembrava che a nessuno importasse. Elsa era tutta intenta a chiacchierare con Patric, il francese a “cottimo”. Lo chiamavamo così perché aveva partecipato allo scambio alla pari con Elsa per venire in Italia e invece di imparare il nostro modo di vivere passava il suo tempo a far tutte le commissioni che i suoi genitori gli davano da svolgere, l’unico suo momento di respiro era quando doveva studiare, poverino, oggi era un’eccezione quella di poter finalmente passare la giornata nel reale mondo degli adolescenti, insieme a noi.
Più avanti ancora c’era Claudio con Sandro che facevano i soliti idioti facendosi i dispetti.
Claudio era l’assurdo motivo che mi aveva convinto a indossare queste scarpe prima del tempo e neppure se n’era accorto “Idiota!” lo strinsi fra i denti neanche sapendo a chi davvero lo stessi dicendo…
Era il 31 dicembre del 1990.
Avevamo attraversato tutta la città cambiando almeno quattro autobus, la destinazione finale doveva essere l’estrema periferia di Bologna, dove avremmo partecipato all’evento più maestoso di tutta Italia per chiudere alla grande l’anno, o almeno questo era ciò che aveva detto chi, sotto banco, a scuola, ci aveva rifilato i coupon. Il controllore, accortosi che non avevamo i biglietti del pulmino, ci aveva buttato fuori e ora non sapevamo neppure in che punto della città eravamo. Dispersi in aperta campagna dove tirava un’aria che sembrava volerci entrare fin nelle ossa e spappolarcele come punizione divina della scappatella non dichiarata.
E poi la pioggia…
Un diluvio vero e proprio come se di colpo un muro ci fosse precipitato addosso. Fredda gelata mi camminava la schiena e scendeva lungo le gambe facendomi percorrere da brividi inconsulti.
Fu allora che Claudio finalmente mi degnò di uno sguardo, mi raggiunse indietro e passò il suo braccio intorno alle mie spalle avvolgendomi con lui dentro il suo cappotto e tenendomi stretta. Quello si che fu di conforto!
Da sotto guardavo le mie scarpe nuove diventar calosce: “ Mia madre mi uccide” pensai mordendomi il labbro ma scansai subito quell’atroce pensiero rimandandolo al tempo dovuto, ora volevo solo assaporarmi il momento vicino a Claudio…
E intanto scrosciava a un tale punto che non si riusciva neppure a veder al di là di un passo.
Ci compattammo tutti preoccupati c’eravamo persi e nessuno sapeva dove eravamo: ognuno di noi aveva raccontato una versione diversa per il cenone di fine anno tutto per avere il consenso dai genitori per poter finalmente salutare insieme, per la prima volta, l’anno nuovo.
Due lumini infondo alla via sembravano chiamare la nostra attenzione. Oscillavano, offuscati dalla pioggia scrosciante, ad altezza d’uomo e parevano davvero mandare un segnale come fossero un faro tra la nebbia a indicare lo scoglio alle navi di passaggio e non potemmo che avanzare con passo veloce per poterlo raggiungere.
Era una struttura di colore rosso arrugginito, queste lanterne assicurate a due ganci oscillavano in balia del vento, illuminando un cartello di fortuna con la scritta Metro.
“Metro?” Lo dicemmo tutti insieme all’unisono e scoppiammo a ridere, forse più rincuorati che altro.
Seguimmo l’indicazione e ci trovammo difronte a una scala evanescente che scendeva in un corridoio grezzo privo di qualsiasi abbellimento, sembrava più una discesa dentro uno scavo, ma la pioggia non voleva cessare e il freddo ormai aveva già iniziato dentro le vene, il processo di assideramento così non ci pensammo e affrontammo la discesa.
Claudio mi stava ancora attaccato per paura che scivolassi e gli altri ci seguirono a ruota.
Di sotto appariva tutto come una normale fermata della metro a parte forse il fatto che non c’erano né treni né persone in attesa, nessuna biglietteria e neppure indicazioni per i binari, se non altro era calda, asciutto e illuminato.
“Male che vada, ragazzi, io ho la bottiglia, almeno brinderemo!” Disse Marco mostrando il bottiglione di Berlucchi che portava dentro lo zaino accompagnandosi con la sua solita risata blasfema che da sempre ci faceva scoppiare a ridere come dei bimbi che avevano appena fatto una marachella.
Poggiati gli zaini in un angolo, perlustrammo la zona. Tutto era lindo e pulito come se mai nessuno prima di allora ci avesse messo piede, nessuna scritta sui muri, nessuna panchina con assi mancanti, sembrava d’esser i primi ad aver messo piede in quella stazione, anche se nessuno pareva voler dar peso alla cosa.
Sandro, che era il burlone della compagnia, d’un tratto, si mise a correre verso Rachele e toccandola col dito disse ridendo: “Tua!” e poi scappò via, come faceva da bambino quando vedeva la figlia della sua vicina di casa che, a dir di tutti, portava iella. Rachele a sua volta, prestandosi al gioco, consegnò il suo fardello a Patric che, anche se non conosceva la vicina in questione allungò la mano verso Marco scaricando il suo possedimento, ovviamente Marco puntò il suo dito su di me ma non abbastanza in fretta da impedirmi di dire “Alimus! Fammi togliere le mie calosce almeno se no non vi prendo più”.
Ci fu un fuggi fuggi generale, chi toccava uno e poi toccava un altro era da un sacco di tempo che non ci divertivamo così, sempre tutti presi a dimostrar al mondo d’esser grandi senza poi esserlo mai abbastanza per far nulla. Giocammo, giocammo per ore senza neppure renderci conto che il tempo passava e stavamo bene, come non lo stavamo da chissà quanto!
Il primo ad arrendersi fu Marco sfiancato dalla corsa fuori programma, si sedette sulla panchina, lo seguì Rachele che gli si sedette vicino tornando di nuovo grande.
Claudio invece mi chiese di andare a fare una passeggiata.
Camminammo per non so quanto tempo in silenzio fino a trovare una panchina isolata ed ombrata. Mi baciò subito come se non avesse aspettato altro per tutta la sua vita, mi accarezzò il seno ed io lo lasciai fare, come se non ci fosse più altro da fare. Mi accarezzò le cosce che oramai erano fasciate solo di quel che restava del nero setoso ed io lo lasciai fare, lasciai salire la sua mano fin dove ancora nessuno era salito, e feci in modo che ci arrivasse ancora, perché aspettare non era più il tempo. Lo accarezzai anch’io sopra i jeans e sentii pulsare il suo volere e lui sentii il mio volere. Che senso aveva allora aspettare ancora? Mi prese, con dolcezza posandomi sopra di lui e finalmente ci unimmo. Così sfacciatamente, senza alcun timore, o remora o pudore, sopra un’apparente panchina pubblica alla fermata di una metro particolare. Facemmo l’amore per la prima volta entrambi e fu assolutamente e meravigliosamente naturale.
Quando ci unimmo agli altri, decidemmo di festeggiare la fine di quell’anno, anche se ancora non era ora. Stappammo il bottiglione e ci scambiammo tutti gli auguri, Claudio mi dette un bacio indimenticabile stringendomi la mano si avvicinò dicendomi che mi amava gli risposi: “Anch’io, Claudio, da sempre!” e poi brindammo a noi.
Fu una serata come se ne vivono poche nella vita…
La metro alla fine arrivò.
Ci mettemmo in fila per salire, un omino pelato e nero come la pece occupava quasi tutta la porta, ma nessuno di noi aveva voglia di parlare con lui per chiedergli di spostarsi. Per Primo salì Claudio, poi Sandro.
Poi fu il turno di Patric e salì anche Elsa, poi subito dietro anche Marco e Rachele, ma quando fu il mio turno, l’omino scuro si girò di scatto sussurrando a bassa voce: “No! Tu NO!”
Vidi solo sfrecciare la metro poi non vidi più niente, almeno fino a quando non mi svegliai…
Erano passati tre mesi dalla fuga segreta del nostro piccolo, grande gruppo.
In ospedale ritrovai mia madre con le lacrime agli occhi quando aprii i miei. Mio padre mi guardava senza proferir parola, e mio fratello quasi mi ruppe il polso (di nuovo) per saltarmi al collo ed abbracciarmi.
Solo molto tempo dopo mi raccontarono com’erano andate davvero le cose quel 31 dicembre del 1990.
Ci fu un acquazzone da paura quella sera uno di quelli capaci di allagar le cantine e render impercorribili le strade, tanto da non permettere ad un camion dal color rosso ruggine di fermarsi in tempo prima di travolgere sei ragazzi sul ciglio di una stradina di campagna priva del marciapiede.
Io ero rimasta indietro…




martedì 18 febbraio 2014

Si guarda sempre solo dove si vuol vedere



Ho sempre cercato
di vedere oltre
senza mai sapere
dove realmente finisse.
A volte lo sguardo
arrivava profondo
fino alla fonte.
Talvolta limpida
serenamente scorreva
dentro un letto di rose
ma senza spine
a graffiarmi la vista.
Talvolta invece
sembrava fogna.
Un liquame infido
senz’ordine alcuno
dove in agguato
si celava di tutto.
Ho trovato anche calore
esule fiamma
dall’effimero ardore.
Ho sempre cercato
di vedere oltre
senza distinguere
cosa avevo di fronte.

lunedì 17 febbraio 2014

L'ASCENSORE


Lascia quel crudo suolo
Accendendo ogni piano al suo passaggio
Sale e poi scende e poi ancor risale
Come fosse una piuma leggera
Elevata da un vento che sa di bizzarro
Non bada a chi sale e non guarda chi scende
Solleva chiunque basta abbia una mente
Obliando talvolta anche i pesi maggiori
Raccoglie però ogni strano pensiero
Elevandolo a volte anche oltre il cielo

domenica 16 febbraio 2014

Un amore tra il saliscendi


Arrivava, come ogni giorno, sempre alla stessa ora col suo modo d’esser squadrato e tutto d’un pezzo dava l’idea d’esser solido ed efficiente, in contrasto con i colori sgargianti che sfoggiava nelle sue vesta, che lo rendevano affascinante e irresistibile. Ogni mattina saliva fin sopra, all’ultimo piano, dove risiedevano gli uffici dei dirigenti con poltrone di pelle e scrivanie in rovere lucidate a dovere durante la notte.
Lo osservavo in silenzio dall’angolo opposto bramandone l’essenza e senza mai trovare il coraggio di far alcuna mossa.
Spesso c’era così tanta gente che la tastiera dei piani sembrava una centrale elettrica da quanti tasti erano illuminati. Ed io passavo il tempo a guardare Lui, mentre Lui sembrava ignorare persino il mio esser presente…
Era una domenica mattina, il palazzo era deserto, nessun saliscendi a comando e le mie porte erano chiuse come fossero palpebre dormienti. D’improvviso mi sentii chiamare: piano terra, era Lui.
Il mio Portatile era lì, sotto il braccio del suo proprietario.
Si rifletteva dentro il mio specchio lampeggiante di verde, elegante.
La sua intermittenza sembrava chiamarmi da dentro il riflesso, sempre più intensa fino a trasformare persino il colore e da verde divenir rosso, come l’immensa passione che mi trasmetteva.
Non potei resistergli. Cominciai a sbarellare come fossi impazzito, mi fermavo a ogni piano senza aprir le mie porte solo per ritardar l’arrivo. E intanto la temperatura al mio interno saliva fino a crear una condensa sullo specchio. L’uomo era agitato e continuava a schiacciare l’apertura delle mie porte, decisi allora di lasciarlo andare, mentre il Portatile sembrava fumare dentro le sue mani sudate. Così aprì le porte e mentre scendeva, Lui aumentò talmente tanto la sua temperatura da scappargli di mano e cadere al mio interno. Chiusi le porte.
L’uomo continuava a bussare con tutta la forza ma io avevo altro da fare col mio Portatile…
Quando finalmente l’Ascensore aprì le sue porte l’uomo da fuori fu invaso da una nuvola di vapore, in mezzo alla nebbia improvvisa gli sembrò di veder dentro lo specchio il suo portatile che lo salutava, allontanandosi fino a divenir un puntino.
L’uomo si strofinò gli occhi incredulo e rimase fermo davanti alle porte di quell’ascensore attonito per qualche secondo, infilò dentro le porte solo la testa nella vana ricerca del suo portatile svanito nel nulla.
Scese le scale e tornò a casa senza mai raccontare a nessuno l’intera vicenda. Non comprò mai più un portatile in vita sua e soprattutto non salì mai più in ascensore.

martedì 11 febbraio 2014

IL MIO CALORE DELLA NOTTE




Spostai la tenda della finestra della camera da letto. L’unica che guardava direttamente sulla terrazza, non l’avevo mai notato prima, puntava direttamente sull’angolo più curato con le piante più verdi e rigogliose, sembrava fatto apposta.
Al centro del vetro si mostrava fiorito, come mai prima di allora, il vaso di rose rosse mentre un raggio di sole infiltrato dai condomini circostanti le illuminava come voler farle scintillare evidenziando ancor di più la loro fioritura.
Chiusi all’istante le tende, per nasconderle velocemente, girandomi di scatto verso mia madre morente nel letto.
Ricordai le sue parole e mi si strinse il cuore:
“Non posso andare da nessuna parte, non ho ancora visto fiorire le mie rose!” Non riuscì a dirglielo.
Era l’ultimo giorno di aprile.
Erano giorni che non riusciva più a parlare o semplicemente a muoversi, oramai la bestia dentro di lei aveva preso il sopravvento su tutto, restava soltanto un involucro cosciente di ciò che l’aspettava.
Morì il giorno dopo in una mattina di sole splendente e tiepida quel tanto che basta a scaldarti l’anima, al contrario la mia raggelava, anche se avevo fatto di tutto per non farle salutare le sue belle rose fiorite. Avevo solo vent’anni.
Fece la sua prima operazione cinque anni prima per un melanoma al seno, poi fu lo stomaco ad esser aperto per tentare di eliminare il Male, mesi di terapie, di pastiglie, esami. Un calvario dietro l’altro fino ad arrivare al fegato ad esser tagliuzzato… nulla, se n’è andata.
E intanto il gelo persisteva, in un giugno così caldo da riuscire a scogliere l’asfalto, io ghiacciavo dentro.
In una notte piena di stelle che solcavano il cielo lasciando un alone fluorescente al loro passaggio sognai.
Ero tornata piccola, nella mia vecchia casa dove ho passato tutta la mia adolescenza. Percorrevo il lungo corridoi che dall’entrata accompagnava alla zona notte, guardai la mia camera passando davanti alla porta, feci in tempo a vedere il letto a castello con le mie lenzuola sempre arruffate per poi voltarle le spalle ed entrare nella camera dei miei genitori. Mio padre non c’era, il letto era disfatto come se ci avessero dormito dentro.
Il piumone dai colori tenui e rassicuranti, aveva una strana forma a spirale dalla quale spuntava solo un viso. Era mia madre.
Mi avvicinai titubante al suo cospetto per darle modo di vedermi, lei mi chiamò, ed io presi coraggio:
“Mamma!” Lo dissi sottovoce anche un po’ impaurita ma continuai: “Stai bene adesso?”
“Si, ora sto meglio.” E mi sorrise.
Mi svegliai di soprassalto senza però esser spaventata, ero solo tutta sudata.
Oggi? Oggi vivo in un’altra casa, sono sposata, ho dei figli, ma la notte dormo ancora col piumone che ho preso dalla casa dei miei genitori. È  il mio calore nella notte.

lunedì 10 febbraio 2014

il riflesso del mondo



La luna risplende nell’oscuro universo. Le stelle brillano dentro l’infinito incostante del buio profondo e lontano, in un punto impreciso dell’inesauribile, si distinguono due emisferi perfettamente uguali.
Tagliati in due da una linea sottile come se nel mezzo passasse uno specchio sottile che offre al di sotto la parte di sopra o forse al di sopra la parte sottostante, non è chiara la dinamica dell’assoluta somiglianza fra questi mondi, fatto sta che ogni angolo del primo combacia perfettamente con l’altro, ogni monte, ogni rientranza, i frastagliamenti e persino ogni singolo albero, tutto uguale.
Anche gli abitanti. Per ogni singolo cittadino esisteva un suo pari nell’altro creato.
Immaginate che attrito fra i due mondi?
Un giorno non definito tutti gli abitanti di entrambi i mondi s’incontrarono col proprio pari sulla linea sottile di confine. Uno di fronte all’altro per dimostrar a se stesso chi fosse il riflesso dell’altro. Miro, quello col tic all’occhio destro dell’emisfero di sopra, combatteva contro Miro, quello col tic all’occhio destro dell’emisfero di sotto. Bastio, cui mancava il dito medio della mano destra dell’emisfero di sotto si ritrovò davanti Bastio, cui mancava il dito medio della mano destra dell’emisfero di sopra. Lentigginoso dell’emisfero di sopra, chiamato così fin dai tempi della scuola tanto che nessuno ricordava più il suo nome, prendeva a pugni Lentigginoso dell’emisfero di sotto. “Il Bel Del Paese” di sotto contro “Il Bel Del Paese” di sopra…
A mani nude, senza differenze combatterono uno contro l’altro, fino allo stremo. Nessuno cedeva alla stanchezza dei colpi e nessuno cadeva sconfitto. La guerra non accennava una fine.
I capi dei due mondi rimasti a guardare in disparte fino ad allora decisero di scendere in campo a loro volta, ma senza esclusioni di colpi. Scesero in campo con cannoni e fucili, gli archi e le frecce sempre e solo per dimostrare chi di loro era solo il riflesso dell’altro, puntarono ogni arma che fossero riusciti a inventarsi sopra la linea sottile che dava il confine a quei mondi e cominciarono il conto alla rovescia. Tutti si scostarono dalla linea sottile di confine con l’assurda idea che cancellata la linea anche il mondo riflesso svanisse con lei, rimasero lì a guardare in trepida attesa. “Dieci, nove, otto”… quando d’improvviso un solo abitante si frappose tra la linea sottile e i cannoni puntati.
Era il solo unico esemplare che si fosse mai visto.
Il silenzio era tombale anche il conteggio s’era fermato per cercar di sentire cosa avesse da dire:
“Io non vengo né dal mondo di sotto né dal mondo di sopra. Sono nato sopra questa linea ed ho vissuto sospeso e nascosto fino ad oggi. Non ho una madre, e non ho un padre. Non ho neppure un pari su cui potermi appoggiare. Son solo al mondo! E vi assicuro che non esiste né in questo né in quel altro mondo qualcosa di peggio che esser da soli.
Questo è solo uno scempio! Tornate a vivere col pensiero felice che in un altro mondo ci sia qualcuno capace di capir cosa voi siete e anziché voler esser unici, siate contenti di saper che qualcuno possa guardarvi e conoscere cosa dentro provate.”.
Fu così che finì quella guerra e i due mondi si mischiarono assieme riuscendo a capir cosa mancava.

sabato 8 febbraio 2014

Non v'è quiete dopo la tempesta

Trascina l'onda
e ancor non si placa
assorbe terra
che le increspa la voce
ostruisce le corde
impiegando la gola
soffocando parole
travolge ogni cosa.

Il silenzio s'è spento,
il frastuono rimuove
poi di colpo finisce
e il mondo muore.

domenica 2 febbraio 2014

Tra le falde dell'incompiuto ci son le voragini di ciò che ancora bisogna cominciare...
L'importente è saper saltare